2026: l’anno della (non) svolta

Smettere di inseguire il cambiamento è il vero inizio del cambiamento.

Ogni fine anno ci raccontiamo la stessa storia.
“Da gennaio cambio tutto. Dopo le feste mi rimetto in forma. Da gennaio inizio davvero.”
E poi, tra aspettative e rincorsa, ci ritroviamo esattamente dove eravamo.

Viviamo in un tempo che propone la trasformazione come un prodotto “tutto e subito”:
“30 giorni per rinascere”, “6 settimane per fiorire”, “un metodo per diventare la versione migliore di te”.
Ma più cerchiamo quella svolta esterna, più ci allontaniamo dalla semplice verità: la svolta non è un evento, è un processo. E soprattutto non arriva da fuori.

La vera svolta è smettere di aspettare la svolta.
Quando smetti di rincorrere un futuro ideale e inizi a stare dentro il presente, anche se non ti piace, qualcosa cambia in profondità, non perché ottieni qualcosa, ma perché smetti di sentirti in difetto finché non lo ottieni.

Il processo ti riporta a casa

I cambiamenti veri non hanno fanfare.
Non iniziano con un “grande gesto” ma con scelte piccole, ripetute, silenziose.
Accadono nei giorni in cui non succede niente di speciale… e tu resti comunque fedele a ciò che hai deciso di diventare.

Il processo è ciò che ti riporta a casa. Non ti chiede di essere perfetto, ma di essere presente.
Non ti promette velocità, ti restituisce radici. Il mito della “svolta veloce” ci tiene sospesi.
La non svolta, invece, ci restituisce alla vita reale, quella dove cresci non perché cambi tutto, ma perché cominci a stare diversamente nelle cose.

Perché “Non di solo mindset”

Perché la testa da sola non basta. Perché non è pensandoti diverso che cambi, è abitandoti diversamente.
Non di solo mindset, ma corpo, memoria, linguaggio, continuità.
La trasformazione non è quando arrivi “lì”, ma quando riconosci che sei già in cammino, esattamente qui.

2026 sarà l’anno della (non) svolta

L’anno in cui smetti di chiedere alla vita una prova e inizi a offrirle presenza.
L’anno in cui smetti di aspettare il momento giusto e riconosci che l’unico momento vivo è questo.
L’anno in cui non ti aggiusti, ma ti assumi.
Forse il 2026 non cambierà tutto. Ma potresti cambiare tu, nel modo in cui stai dentro ciò che c’è.
E forse, alla fine, è proprio questo che chiamiamo svolta.

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Ndr: “Non di solo mindset e non svolta” – Si dice che in comunicazione si debba evitare il “non”, perché il cervello fa maggiore fatica a comprendere la frase.
Forse è vero, ma io comunico per far pensare. Quindi, un po’ di fatica bisogna farla.
Per pensare, a volte, serve anche un “non”.
Serve dire non è così semplice, non basta crederci, non di solo mindset.
Serve riconoscere che la vita non procede solo per affermazioni, ma anche per sottrazioni, per pause, per no che aprono spazio ai sì autentici. Ecco perché l’ho lasciato, due volte.
Non tutto ciò che nega blocca e, a volte, è proprio il “non” a liberare.

Peggio di una riunione inutile, c’è solo nessuna riunione

Evitare le riunioni, o farle male, porta allo stesso risultato: confusione, tensione e decisioni rimandate.

In molte aziende le riunioni sono viste come una perdita di tempo. C’è chi le fa per abitudine, senza sapere bene perché. E c’è chi non le fa affatto: “tanto ci vediamo tutti i giorni”, “non serve una riunione per parlarci”.
Peccato che….. più si evitano le riunioni, più servirebbero. E più se ne fanno senza metodo, più diventano inutili.
Le riunioni non sono solo un momento per “parlare di lavoro”: sono (o dovrebbero essere) lo spazio in cui un gruppo si allinea, decide e cresce insieme.
Quando mancano, l’azienda si frammenta:
– ognuno va per conto suo,
– le informazioni girano a metà,
– si decide “nei corridoi” o per gerarchie implicite,
– le incomprensioni aumentano e qualcuno finisce per dire “ma io non lo sapevo”.

Dall’altra parte, ci sono le riunioni che esistono ma non servono: lunghe, confuse, dominate da chi parla di più, dove si esce con più dubbi che soluzioni.
In entrambi i casi, la leadership si indebolisce: chi guida non guida più, e chi partecipa si disconnette.
Molti imprenditori e manager mi dicono: “Se comincio a fare riunioni, poi non ne usciamo più.” “Abbiamo già troppi impegni, non voglio aggiungerne altri.”
È comprensibile. Ma le riunioni non servono a riempire l’agenda, servono a svuotarla dalle ambiguità!
Una riunione fatta bene libera tempo, invece di consumarlo. Perché ogni minuto speso a chiarire, ne risparmia dieci di fraintendimenti, correzioni, o decisioni prese e disfatte.

Quindi, che fare?
Non serve partire in grande. Basta iniziare da una riunione breve, anche di soli 20 minuti, ma con un obiettivo chiaro:
– un giro veloce per allinearsi sulle priorità della settimana,
– due decisioni da prendere insieme,
– un’occasione per ascoltare come stanno andando le cose.

La differenza non la fa la durata, ma l’intenzione: incontrarsi per capire, non solo per parlare.
Una riunione torna utile quando:
– chiarisce chi fa cosa e quando,
– riduce i malintesi,
– rafforza la fiducia tra le persone,
– lascia tutti con la sensazione di aver costruito qualcosa insieme.
E questa competenza, saper guidare riunioni che funzionano, è una delle più concrete forme di leadership.
Peggio di una riunione inutile, c’è solo nessuna riunione. Perché senza momenti di chiarezza condivisa, la collaborazione diventa un gioco di supposizioni. E le decisioni finiscono per non appartenere a nessuno.

Foto: Fauxels su Pexels

Perché partire dal vertice è cruciale affinché il cambiamento non si inceppi.

Qualche giorno fa ho incontrato un’imprenditrice di una PMI da circa 30 persone.
Parlando dell’avvio di un percorso di riordino organizzativo e sviluppo delle soft skills, mi è stato subito chiaro che la prima sfida sarà… scardinare un brutto ricordo.
L’imprenditrice mi ha infatti raccontato l’esperienza vissuta dieci anni fa, quando, insieme al suo socio, ha provato ad avviare un percorso di cambiamento organizzativo.
Questionari a tutti i dipendenti, colloqui individuali, consulenze, attività varie. Un supermanager arrivato dalla grande industria.
Sulla carta sembrava un progetto solido. Nella realtà è stato vissuto come un trauma che ha risvegliato conflitti che nessuno era preparato a gestire.
Si sono spalancate criticità che ancora oggi fanno capolino: diffidenza, resistenze, malintesi.
“Sembrava che ci volessero cambiare come se fossimo una multinazionale, ma noi siamo una realtà piccola” mi ha detto.

Perché ciò che funziona in una multinazionale non si adatta a una PMI
Questa storia conferma quello che molte ricerche hanno già evidenziato.
Un’indagine condotta su 72 PMI europee in 7 paesi ha mostrato che, anche quando vengono adottati validi strumenti di change management (pianificazione, implementazione, comunicazione), la sfida resta l’allineamento interno e la sostenibilità del cambiamento (fonte: beman.ase.ro).
👉 Nelle PMI, il cambiamento non può essere calato dall’alto.
Non può partire dai collaboratori, se prima non c’è chiarezza al vertice.

I tre pilastri del cambiamento sostenibile
Il mio approccio si basa su tre pilastri che si rafforzano a vicenda:

💬 Comunicazione a Forte Impatto
Ogni parola deve avere un’intenzione chiara.
Nelle fasi di cambiamento, se i leader non spiegano il perché, il come e il chi fa cosa, i collaboratori percepiscono solo confusione e vuoto.

🌱 Cultura della Responsabilità
Il cambiamento attecchisce solo se le persone smettono di dire “non è compito mio” e iniziano a farsi carico di un pezzo del percorso.
Qui entra in gioco la leadership diffusa, che si traduce in fiducia reciproca e in una distribuzione intelligente delle decisioni.

⚙️ Ecosistema Organizzativo
Ruoli, processi e rituali chiari sono il terreno fertile su cui il cambiamento può crescere.
Non servono rivoluzioni: servono piccoli passi, strutturati e coerenti, che rendano più fluidi i flussi di lavoro.

La svolta parte dal vertice
Ascoltando l’imprenditrice ho avuto l’ennesima conferma che, prima di lanciare questionari o workshop per l’intera azienda, serve lavorare sui titolari stessi.
Così ho proposto un percorso iniziale di executive coaching per lei e il suo socio per:

  • chiarire visione e obiettivi;
  • individuare le priorità strategiche (non tutto è urgente);
  • prepararsi a comunicare il cambiamento con coerenza.

Solo così il cambiamento può diventare un percorso graduale, guidato e sostenibile.

Un messaggio per chi guida un’impresa
Il cambiamento non è una rivoluzione lampo.
È un processo graduale che richiede coerenza, responsabilità diffusa e piccoli passi costanti.
👉 In una PMI, il cambiamento è prima di tutto un fatto di leadership, non di procedure.

E tu? Nella tua azienda i cambiamenti li stai guidando o li stai subendo?
✉️ Se vuoi parlarne, scrivimi. Fissiamo 30 minuti: il primo passo per cambiare le cose.

Leadership e autenticità: partire da ciò che ci fa stare bene

C’è una domanda semplice, ma potente, che ogni tanto propongo agli imprenditori e ai manager con cui lavoro: Cosa ti piace davvero fare? In qualsiasi ambito. Non solo nel lavoro.

La risposta non arriva subito. Serve tempo, a volte settimane. Ma quando arriva, apre uno spazio nuovo. Uno spazio in cui si fa chiarezza su cosa nutre, cosa svuota, cosa è solo abitudine. Per arrivarci è necessario togliere l’aspettitativa, l’ansia da prestazione. Serve tornare per un momento bambini.

Una mia cliente mi ha scritto dopo aver fatto questo esercizio. È una imprenditrice. Una persona concreta, abituata a decidere, a tenere insieme le cose. Ecco cosa ha scritto, tra le altre cose:

«Ciò che mi piace mi fa anche stare bene… Una unione di spirito e corpo… Boom!»

La sua lista è piena di dettagli autentici: abbracciare, ridere con gli amici, guidare senza meta, sentirsi utile, apprezzata, accettata per com’è. Semplicità disarmante, eppure, profondamente umana.

E ha concluso così: «Per vivere bisogna abbeverarsi a fonti che saziano. Credo che siano ciò che serve per vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.» Che meraviglia!

Questa frase, così intensa, mi ricorda un punto fondamentale: non si può guidare davvero un’impresa, un team o un progetto se si è disconnessi da sé stessi.

La leadership personale non è un esercizio di volontà. È un esercizio di verità. Comincia da qui: da ciò che ci fa stare bene. Da ciò che ci fa sentire vivi.

Non si tratta di inseguire piaceri effimeri, ma di riconoscere le radici della nostra motivazione profonda. Quando un leader ritrova questa connessione, cambia anche il modo in cui guarda le persone che ha accanto.

Non le vede più solo come esecutori. Ma come esseri umani. Con bisogni, desideri, potenzialità.

È da qui che nasce una leadership più lucida, più empatica, più coinvolgente. Una leadership che non si basa solo su obiettivi, ma su relazioni autentiche.

Ti sembra difficile da realizzare? Forse lo è. Ma come ha scritto lei stessa, vale la gioia provarci. Perché è proprio da lì, da quelle “fonti che saziano”, che può rinascere anche l’energia per affrontare il resto.

Che ne pensi? Ti leggo con piacere.

Diventa una guida autorevole: sviluppa la tua leadership con consapevolezza e impatto

Il workshop che trasforma la tua leadership e fa fiorire persone e obiettivi.

Viviamo un tempo in cui sempre più persone, a tutti i livelli, si sentono spente sul lavoro.
Non è una questione di competenze. Né di obiettivi mancati. Il problema, spesso, sono relazioni faticose, comunicazioni confuse, mancanza di senso.
I manager, gli imprenditori, i professionisti spesso si trovano a dover mediare tra le esigenze del business, i bisogni dei collaboratori e le richieste dei clienti, in un clima di urgenza e pressione che non lascia spazio a riflessione, ascolto, benessere.
Ma cosa succede quando un leader decide di fermarsi per ripartire?
Non per rallentare, ma per evolvere.
Non per riorganizzare l’agenda, ma per riconnettersi a sé e agli altri.

Una nuova leadership: autorevole, non autoritaria

Essere leader oggi non significa più avere tutte le risposte o “tenere tutto sotto controllo”.
Essere leader oggi significa:
– ascoltare con attenzione;
– comunicare in modo chiaro;
– gestire i conflitti con lucidità:
– favorire la crescita del team;
– restare focalizzati sugli obiettivi.
Questo richiede allenamento, consapevolezza, metodo. Ma soprattutto richiede scelte quotidiane nuove.

Le persone non vanno cambiate. Vanno comprese.

Molti pensano che il problema siano “gli altri”: i collaboratori disattenti, i clienti troppo esigenti e l’azienda poco organizzata.
Ma il vero punto di svolta avviene quando un manager inizia a osservare la realtà con occhi nuovi, a porsi domande diverse e a modificare il proprio approccio.
Ecco perché oggi non serve un’altra formazione standard. Servono percorsi che integrino coaching, formazione esperienziale e visione strategica, capaci di accompagnare persone e organizzazioni in un’evoluzione concreta e sostenibile.
Nella realtà, la vera trasformazione avviene quando impariamo a stare proprio dove siamo. Quando diventiamo più consapevoli, più efficaci, più autorevoli.
A volte è sufficiente una nuova modalità di comunicazione, una routine settimanale condivisa, un feedback dato nel modo giusto per creare un effetto domino nel clima lavorativo.

Sei pronto a diventare una guida per chi lavora con te, e per i tuoi clienti?

Se la risposta è sì, partecipa al workshop “Diventa una guida autorevole per collaboratori e clienti”: un’introduzione pratica al percorso Peace&Work, pensato per chi vuole più leadership, meno stress.
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L’autostima ce l’hai e non lo sai

Autostima è una delle parole più usate nel mondo della crescita personale. Ci dicono che dobbiamo rafforzarla, lavorarci sopra, costruirla pezzo dopo pezzo. Ma ti sei mai chiesto se l’autostima sia davvero qualcosa di cui hai bisogno? O se, piuttosto, sia un concetto che può diventare superfluo quando impari a vedere le cose da un’altra prospettiva?

Cos’è (e cosa non è) l’autostima

L’autostima viene spesso confusa con la fiducia in sé stessi, con l’essere sicuri, con il sentirsi all’altezza in ogni situazione. Ma se scaviamo un po’ più a fondo, ci accorgiamo che non esiste una definizione univoca: ognuno ne ha una percezione diversa, legata alle proprie esperienze, alla propria storia e alle proprie convinzioni.

Molti credono che avere autostima significhi non avere dubbi, non sbagliare mai, essere sempre in controllo. Ma questo è un mito. L’autostima non è una corazza che ci protegge dalle insicurezze, né un superpotere che ci rende invincibili. Piuttosto, è una forma di accettazione: accettare di essere come siamo, con i nostri punti di forza e le nostre fragilità, senza per questo sentirci meno capaci o meno degni di realizzare ciò che desideriamo.

E se l’autostima fosse un’illusione?

Prova a pensare ai momenti in cui ti sei sentito davvero bene con te stesso. Magari quando eri immerso in qualcosa che ti appassiona, quando hai aiutato qualcuno senza aspettarti nulla in cambio, quando hai semplicemente vissuto il momento senza chiederti se eri abbastanza.

In quei momenti, hai pensato alla tua autostima? Probabilmente no. Perché quando siamo davvero presenti, quando siamo in uno stato di “flusso” (come lo chiamano gli psicologi), il concetto di autostima diventa irrilevante. Sei semplicemente te stesso. Fai ciò che ti viene naturale fare. Non hai bisogno di etichette o misure per sentirti adeguato.

Il ruolo del linguaggio interno

Se c’è qualcosa che incide profondamente sul nostro rapporto con l’autostima, è il nostro dialogo interiore. Come ti parli ogni giorno? Ti critichi costantemente? Minimizzi i tuoi successi e ingrandisci i tuoi errori?
Molte convinzioni limitanti sull’autostima nascono proprio dal modo in cui ci rivolgiamo a noi stessi. Frasi come:

  • “Non sono abbastanza bravo.”
  • “Non posso farcela.”
  • “Gli altri sono sempre più capaci di me.”

sono programmi mentali che, ripetuti nel tempo, diventano realtà. Ma cosa succederebbe se iniziassi a parlarti in modo diverso? Se invece di dire “Non sono abbastanza” provassi a dire “Sono come sono e posso migliorare”?

Smettere di rimandare la felicità

Un altro grande ostacolo alla percezione di sé è la tendenza a legare il proprio valore a traguardi futuri: “Quando sarò più magro, allora mi sentirò bene.” “Quando avrò successo, allora sarò felice.” “Quando troverò la persona giusta, allora sarò completo.”

Ma se la felicità non fosse una meta da raggiungere, bensì una scelta che possiamo fare ogni giorno? Se iniziassimo a darci il permesso di sentirci bene adesso, senza aspettare di diventare “abbastanza” per meritarlo?

Un nuovo paradigma

Più che cercare di costruire l’autostima, potremmo imparare a vivere in uno stato in cui non ne abbiamo bisogno. Questo accade quando ci troviamo in quella che alcuni esperti chiamano “stato generativo”: uno stato mentale e fisico in cui siamo completamente presenti, connessi con ciò che vogliamo e con la nostra capacità di agire nel mondo.

In questo stato:

  • Non hai bisogno di confrontarti con gli altri per sentirti valido.
  • Non ti preoccupi eccessivamente del giudizio esterno.
  • Non aspetti di essere “pronto” per iniziare qualcosa di nuovo.
  • Ti concentri sul fare, più che sul pensare a come ti senti.

Come portare tutto questo nella tua vita

Se vuoi iniziare a vivere in questo modo, ecco alcuni esercizi che possono aiutarti:

  1. Fai una lista dei tuoi successi – Scrivi almeno 10 momenti della tua vita in cui hai ottenuto qualcosa di cui sei fiero. Non importa se piccoli o grandi: conta solo che per te abbiano avuto valore.
  2. Cambia il tuo dialogo interno – Ogni volta che ti critichi, fermati e sostituisci quella frase con una più utile e costruttiva.
  3. Sperimenta fuori dalla tua zona di comfort – Prova a fare qualcosa di nuovo, anche piccolo. L’esplorazione e l’azione aiutano a ridurre la dipendenza dall’autostima.
  4. Nota i momenti in cui ti senti nel flusso – Presta attenzione alle attività che ti fanno dimenticare di te stesso e cerca di coltivarle sempre di più.

L’autostima, così come la intendiamo di solito, potrebbe non essere così fondamentale come pensiamo. Forse il vero segreto non è lavorare per aumentarla, ma imparare a vivere in un modo in cui non sia più necessaria. E se, invece di chiederci se abbiamo abbastanza autostima, iniziassimo a chiederci: “Cosa posso fare oggi per essere semplicemente me stesso?”

Foto Moose Photos via pexels

Un viaggio di trasformazione: la mia esperienza di coaching in un’azienda familiare

La telefonata che ha cambiato tutto

Ricordo con chiarezza la chiamata del Sig. Toscani. La sua voce trasmetteva un misto di preoccupazione e speranza: “Nella mia azienda non comunichiamo, non ci parliamo. Ho bisogno di confrontarmi con i miei figli, di condividere con loro le responsabilità e le scelte. Abbiamo margini di miglioramento, sia a livello organizzativo che produttivo. Può aiutarci?”

Il mio interlocutore si aspettava una consulenza tradizionale, ma io potevo offrirgli molto di più: un percorso che avrebbe permesso all’azienda di trovare le risposte dentro di sé, non di riceverle dall’esterno.

Il contesto: un’azienda a conduzione familiare

L’azienda Toscani è guidata da Antonio, il fondatore, affiancato dalla moglie Patrizia e dai figli Andrea e Marco. Il business è in crescita, ma il clima interno è teso: i ruoli non sono ben definiti, la comunicazione è frammentata e Antonio fatica a farsi riconoscere come leader. Il suo obiettivo? Creare un’organizzazione più solida e preparare i figli a prendere in mano l’azienda.

Le prime difficoltà

Fin dai primi incontri è emersa una dinamica tipica delle aziende familiari: la difficoltà nel separare il ruolo professionale da quello familiare. Antonio era il capo, ma anche il padre. Patrizia gestiva la produzione, ma anche le relazioni con i figli. Marco e Andrea oscillavano tra il ruolo di figli/dipendenti e quello di eredi/futuri manager. Questo creava tensioni, incomprensioni e una certa resistenza al cambiamento.

Un nuovo metodo di lavoro

Abbiamo deciso di istituire riunioni settimanali per migliorare la comunicazione e condividere le decisioni strategiche. Durante queste sessioni di team coaching, i membri dell’azienda hanno iniziato a confrontarsi apertamente, a definire ruoli più chiari e a prendere decisioni più consapevoli.

Uno degli aspetti più potenti è stato il lavoro sulla vision condivisa: “Tra cinque anni l’azienda sarà gestita dai giovani.” Questa immagine ha creato un punto di riferimento stabile per il cambiamento.

Momenti di crisi e di crescita

Non tutto è stato facile. In una delle prime riunioni vi sono state tensioni e resistenze. Le abbiamo affrontate e trasformate in energia propulsiva, vivendole come opportunità di rafforzare la coesione del team. Nonostante momenti di stallo, il percorso ha portato grandi progressi: Andrea ha iniziato a prendere più iniziativa, Marco ha smesso di procrastinare e Antonio ha imparato a delegare e fidarsi.

La trasformazione finale

Dopo un anno e mezzo e oltre 50 sessioni di coaching, individuali e di team, si è creato un nuovo equilibrio. La comunicazione è migliorata, le decisioni sono diventate più strutturate e i giovani hanno acquisito maggiore autonomia. Il percorso non ha risolto tutti i problemi, ma ha dato loro gli strumenti per affrontarli in modo più efficace.

Lezioni apprese

Questa esperienza testimonia che il coaching non è solo un metodo, ma una lente attraverso cui le persone possono vedere la loro realtà in modo nuovo, e che il cambiamento è possibile solo quando c’è una reale volontà di mettersi in gioco. E nelle aziende familiari, spesso, la sfida più grande non è solo organizzativa, ma profondamente emotiva.

Il mio viaggio con l’azienda Toscani è stato un percorso di crescita reciproca. Io ho aiutato loro a evolvere come persone e come team, loro mi hanno insegnato il valore della pazienza, dell’ascolto e della resilienza. E, alla fine, il più grande successo è stato vedere in loro la consapevolezza che il futuro dell’azienda è nelle loro mani.

Assertività: l’arte di comunicare con equilibrio

L’assertività è una competenza fondamentale nelle interazioni umane, che permette di esprimere le proprie idee, i propri bisogni e le proprie emozioni in modo chiaro e rispettoso, senza prevaricare gli altri.
Il concetto di comportamento assertivo nasce con Andrew Salter, nel 1949, e viene poi approfondito da Joseph Wolpe, negli anni ’60, che sviluppa protocolli di training per aiutare le persone a migliorare la loro capacità di esprimersi.

Nella comunicazione, possiamo individuare tre principali stili:

  1. Passivo: evita il confronto, non esprimere i propri bisogni e subisce le decisioni altrui.
  2. Aggressivo: si impone sugli altri, non ascolta e cerca di dominare la conversazione.
  3. Assertivo: trova un equilibrio tra l’espressione di sé e il rispetto degli altri.

Essere assertivi significa trovare il giusto spazio per affermare la propria posizione senza risultare passivi o aggressivi. Non si tratta di una questione di autostima, ma di sintonia con sé stessi e con gli altri.

Esempi pratici di comunicazione assertiva

Vediamo ora alcune situazioni concrete e il modo in cui si possono affrontare con un approccio assertivo.

1. Scelta in coppia: dove andiamo a cena?

  • Aggressivo: “Decidi sempre tu e hai dei gusti pessimi.”
  • Passivo: “Per me va bene tutto, scegli tu.”
  • Assertivo: “Mi piacerebbe se scegliessimo tenendo conto dei gusti di entrambi. Che ne dici di trovare un compromesso?”

2. Feedback sul lavoro

  • Aggressivo: “Questo lavoro è uno schifo.”
  • Passivo: “Non sono un esperto, magari si potrebbe migliorare…”
  • Assertivo: “Ho notato che il progetto può essere migliorato, ne discutiamo assieme?”

3. Suddivisione dei compiti domestici

  • Aggressivo: “Sono arcistufa/o di fare tutto da sola/o. E’ ora che ti dia da fare!”
  • Passivo: “Forse potresti aiutarmi di più, altrimenti mi arrangio.”
  • Assertivo: “Penso che sia importante che ognuno faccia la sua parte, possiamo discuterne per organizzarci meglio?”

Consigli pratici per sviluppare l’assertività

Essere assertivi è una competenza che si può sviluppare con il tempo e la pratica. Ecco alcuni suggerimenti:

  1. Conosci te stesso: Definisci i tuoi bisogni, i tuoi valori e i tuoi confini. Se non sai cosa vuoi, sarà difficile esprimerlo agli altri.
  2. Parla in prima persona: Invece di dire “Mi fai sempre arrabbiare”, prova “Mi sento frustrato quando succede questa cosa”.
  3. Impara a dire di no: Rifiutare una richiesta non significa essere scortesi. “Al momento non posso accettare questa richiesta, possiamo trovare un’alternativa?”
  4. Dai e accetta feedback: Offri riscontri costruttivi e chiedili agli altri per migliorarti senza sentirti giudicato.
  5. Mantieni la calma: Il tono di voce, il linguaggio del corpo e la respirazione controllata aiutano a comunicare sicurezza senza risultare aggressivi.

L’assertività non è un dono innato, ma una competenza che si può allenare e migliorare. Applicando strategie come quelle proposte, potrai comunicare con maggiore sicurezza ed efficacia, migliorando sia la tua vita professionale che personale. Inizia oggi stesso a esercitare la tua assertività e scopri il potere di una comunicazione equilibrata!

(Ph: cottonbro studio su Pexels)

Esplorando la soddisfazione lavorativa: ecco cosa è emerso dal mio personale sondaggio.

Qualche mese fa ho inviato un mini sondaggio ai miei contatti. Stavo ridefinendo il mio programma di coaching, inizialmente “generalista”, orientandolo verso la realizzazione professionale e il benessere organizzativo. Stava nascendo Peace&Work.

Mi interessava capire cosa le persone apprezzassero maggiormente del proprio lavoro e per quali motivi; quale aspetto volessero principalmente migliorare e quali azioni volte al miglioramento avessero eventualmente compiuto. Infine, alzando ancor più la posta, ho chiesto quale risultato ottimale avrebbero voluto raggiungere se avessero saputo cosa fare.

Pur trattandosi di un campione ristretto, le risposte hanno fornito uno spaccato interessante sul modo in cui lavoratori di diversi ambiti vivono il proprio approccio al lavoro (la stragrande maggioranza degli intervistati è lavoratore dipendente). È emerso un quadro variegato, ma con alcuni trend ricorrenti che meritano attenzione.

Cosa apprezziamo maggiormente del lavoro?
Le risposte rivelano un forte apprezzamento per gli aspetti che vanno oltre la pura retribuzione. Autonomia, relazioni positive con colleghi e clienti, e l’opportunità di imparare e crescere sono tra gli elementi più frequentemente citati. Questo conferma quanto la dimensione umana e il senso di appartenenza siano cruciali per il benessere lavorativo.

Cosa vorremmo migliorare?
Tra le aree di miglioramento spiccano la gestione del carico di lavoro, la comunicazione interna e la chiarezza degli obiettivi aziendali. Alcuni partecipanti hanno evidenziato anche l’importanza di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavorativa, un tema sempre più centrale nelle discussioni sul benessere professionale.

Azioni intraprese per il cambiamento
Le risposte indicano che molti hanno già provato a migliorare la propria situazione, spesso investendo in formazione o confrontandosi con colleghi e superiori. Tuttavia, per alcuni la difficoltà sembra risiedere nel trovare strumenti concreti per tradurre le intenzioni in azioni efficaci.

Una riflessione sulla leadership e la cultura aziendale
Le risposte al sondaggio fanno emergere una correlazione importante tra soddisfazione lavorativa e cultura organizzativa. Un ambiente che favorisca la fiducia e la collaborazione sembra essere un elemento chiave per motivare le persone e aiutarle a raggiungere i propri obiettivi.

E quindi?
Ho ricevuto ulteriori conferme delle dinamiche che influenzano la soddisfazione e la realizzazione professionale. Ho compreso che Peace&Work può dare un effettivo contributo per avviare riflessioni strategiche, sia a livello personale che aziendale, per costruire contesti di lavoro più saniequilibrati e produttivi.
Con Peace&Work, non solo si lavora per migliorare l’ambiente organizzativo, ma si costruisce un percorso unico e sostenibile, pensato per valorizzare le persone e il contesto in cui operano.

Condividi la tua esperienza nei commenti: quali sono le sfide più grandi che affronti sul lavoro?